“Era solo la prima notte, ma una serie di secoli l’aveva già preceduta”
(loop talmudico)
Sulle tracce del Commando Interpolazioni – le sue prime apparizioni, i suoi annunci, quando tutto era così magmatico da sembrare impossibile, e le forme erano solo promesse o minacce – ci siamo imbattuti in una ricostruzione difficilmente equivocabile.
Nel testo “Magias parciales del Quijote” (Otras inquisiciones, 1952), Borges affronta un tema fondamentale nella storia della letteratura: il realismo nel Don Chisciotte di Cervantes. L’argentino attacca così (non fraintendeteci: un caso simile ci richiede di osservare da vicino un momento così delicato di un testo, il suo incipit):
“È verosimile che queste osservazioni siano già state enunciate, una volta o persino molte volte; la discussione intorno alla loro novità mi interessa meno della loro possibile verità”.
Sub specie aeternitatis: fin dall’inizio è chiaro che per speculare bisogna cominciare speculando. Segue Borges:
“Confrontato ad altri classici (L’Iliade, l’Eneide, la Farsalia, la Commedia dantesca, le tragedie e commedie di Shakespeare) il Don Chisciotte è realista; questo realismo, però, differisce in modo essenziale da quello esercitato nel XIX secolo. […] La forma del Don Chisciotte spinse Cervantes a contrapporre a un mondo immaginario poetico un mondo reale prosaico […]; per Cervantes il reale e il poetico sono antinomici. […] Il progetto dell’opera vietava a Cervantes il meraviglioso; questo elemento, tuttavia, doveva comparire, fosse anche solo in maniera indiretta […]. Cervantes non poté fare ricorso a talismani o sortilegi, però insinuò il soprannaturale in modo più sottile – per questo stesso motivo, più efficace.
[…] Ogni romanzo è un progetto ideale; Cervantes si compiace nel confondere il piano oggettivo con quello soggettivo, il mondo del lettore e il mondo del libro. Nei capitoli in cui si discute se la bacinella del barbiere sia un elmo e l’arcione una bardatura da cavalieri, il problema è trattato in modo esplicito; in altri frangenti, come ho già notato, è solo insinuato. Nel sesto capitolo della prima parte, il prete e il barbiere passano in rassegna la biblioteca di don Chisciotte; uno dei libri esaminati, incredibilmente, è la Galatea di Cervantes, e viene fuori che il barbiere è suo amico e non nutre nei suoi confronti particolare ammirazione, e dice che questi è più familiare con le disgrazie che non con i versi, che il libro ha qualcosa di buono nell’invenzione, che propone cose ma non conclude niente. Il barbiere, sogno di Cervantes, o forma di un sogno di Cervantes, giudica Cervantes stesso…
[…] Questo gioco di peculiari ambiguità culmina nella seconda parte; i protagonisti hanno letto la prima parte, i protagonisti del Don Chisciotte sono essi stessi lettori del Don Chisciotte”.
Con discrezione e rigore Borges nomina tre opere in cui accade qualcosa di analogo: l’Amleto di Shakespeare, che include al suo interno un teatro in cui si rappresenta una tragedia, la quale è quasi perfettamente l’Amleto stesso. Dice l’argentino: “la corrispondenza imperfetta dell’opera secondaria con l’opera principale impoverisce l’efficacia di questa inclusione”. La seconda opera è il Ramayana, poema di Valmiki. La terza e più perfetta apparizione di questo qualcosa avviene ne Le mille e una notte:
“Una cosa simile ha macchinato il caso ne Le mille e una notte. Questa compilazione di storie fantastiche duplica e moltiplica fino alla vertigine la ramificazione di un racconto centrale in racconti avventizi, però non intende graduarne le realtà, e l’effetto (che pure dovette essere profondo) è superficiale come un tappeto persiano. La storia che introduce la serie è nota: il desolante giuramento del re, che ogni notte sposa una vergine che fa decapitare all’alba, e il piano di Shahrazad, che lo distrae raccontandogli storie, fino al punto che intorno a loro sono trascorse mille e una notti, e la donna le mostra suo figlio. La necessità di completare mille e una sezioni obbligò i copisti dell’opera a interpolazioni di ogni tipo. Nessuna di queste è così perturbante come quella della notte 602, magica tra tutte le notti. Quella notte, il re ascolta dalla bocca della regina la sua stessa storia. Ode l’inizio della storia, che contiene tutte le altre, e anche – in modo mostruoso – se stessa. Intuisce chiaramente il lettore la vasta possibilità di questa interpolazione, il curioso pericolo? Che la regina persista nel racconto e il re immobile resti ad ascoltare per sempre la storia tronca de Le mille e una notte, ora infinita e circolare…”
(In foto: prima apparizione del Commando
Interpolazioni dal crollo delle Torri Gemelle)
Esiste una singolare occorrenza, catalogata nella teoria dell’evoluzione come exaptation. Con questo nome, tanto esotico quanto erudito, si indica la necessità, sul lungo termine, dell’equivoco; forse si indica anche, senza volerlo, una scoperta involontaria, una serendipità. Si indica, in ultima analisi, un fondamentale cambiamento nelle funzioni dell’organo x, che iniziò per svolgere la funzione y, e terminò svolgendo la funzione z (la funzione z poi si rivelò fondamentale, vitale per il prosieguo del progetto: da cui la serendipità).
L’argentino, nei passi riportati sopra, insinua in modo sottile – e per questo molto efficace – che il principio metanarrativo è il germe di ogni narrazione fantastica; che esso dischiude le porte di quel dispositivo che nella narratologia moderna è detto loop causale (con cui ha giocato P.K. Dick, ad esempio nel racconto “The Commuter”; che lo stesso Borges, ne “L’altra morte”, ha dispiegato senza pecca; che Lynch ha condotto fino alla vertigine in Twin Peaks The Return) e che altri, più ortodossi e pudichi, hanno già chiamato regressus in infinitum: quella peculiare condizione in cui la causa è posteriore al suo effetto.
Questo qualcosa non è esattamente quello che cercavamo. Il tentativo – meno inefficace che metodologicamente impreciso – di risalire alle origini del Commando Interpolazioni ci insegna a non confondere origine e scopo: la prima è un punto arbitrario dello spaziotempo (“era solo la prima notte, ma una serie di secoli l’aveva già preceduta”), il secondo una speranza, un’illusione che solo la morte – la fine, la fine del mondo – potrà certificare vana.
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La divisione K. del Commando Interpolazioni
Eraclito di Efeso
Juan Dahlmann
Luca Mignola
Parmenide di Elea
Alfredo Zucchi
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