Venerdì scorso, tale 18 gennaio 2019 dc (2771 ab urbe condita), presso la tana/libreria Wojtek in provincia di Napoli, si è discusso, tra le altre cose, insieme a Salvatore Toscano e Gianfranco Di Fiore, di musica e letteratura e musica e scrittura.
Una persona tra gli astanti, Carmine Spiniello, ha raccontato, alla fine dell’incontro, di aver associato la lettura del romanzo di Gianfranco, Quando sarai nel vento, a Tomorrow’s Harvest dei Boards of Canada.
Reach for the Dead mi ha in effetti evocato le atmosfere della seconda parte di Quando sarai nel vento (“Rosso”).
La bomba voyeur si è invece legata a Double Negative dei Low.
Una canzone del disco, Dancing and blood, mi ha richiamato un passo del romanzo.
Sogno numero 1
La stanza vuota, blu scuro. Una donna è china sulla finestra. Si volta di tanto in tanto, mi indica; muove le labbra, grida – non ci sono parole ma suoni, corde di viola grattate a secco. Lo spazio, denso, si contrae e si dilata. È vicina, la vedo a un passo – distinguo, di lato, la saliva a gocce dai denti, la vena del collo abboffata – allungo le mani per prenderla, spingerla; torna distante. E ancora, vicina e remota, a un ritmo cardiaco. Il rumore nell’aria ristagna, ogni grido ottura i canali; mi schiaccia all’indietro. Aria di collasso: cemento, le gambe immobili. Resto fermo, assecondo il respiro, le sono addosso di nuovo. Sento le grida, le accuse – voglio vederla a ogni costo, prenderla in faccia, e non riesco. Mi aggrappo alla finestra, lo sforzo accelera il battito. Lei resta immobile spalle alla stanza, non reagisce al mio teatro. La stanza si muove, qualcosa là dentro va storto – il peso, la massa, qualcosa. Una cosa, un bambino o un oggetto, pende di fianco attaccato a una corda di pelle. Mi aggrappo, la afferro, le stringo le spalle con gli arti per schiacciare e spingere. Lei infine si gira, mi guarda: è una vecchia. Si accascia, mi supplica in ginocchio – non comprendo le grida e le accuse, pure mi è chiaro. Mi sforzo di rispondere e le parole pendono indietro per la gola. Crollano pure le gambe; ricado al suo fianco, mi rotolo a terra con lei. Ed è un’altra, soffice, lunga, bruna. Sono nudo, la voglio: le strappo le cose, la succhio – è liquida. Un cazzo di satiro enorme mi sboccia da dentro, lunghissimo e secco, mi sbatte sul mento. Lei mi trattiene, combatte, piagnucola; ripete le stesse accuse, si nega, cagna si dà alla fuga. Strisciamo per terra. Prendo la mira da dietro, sono a punto, entro; mi bagno nelle pareti morbide, tutto è parete – e lei sguscia via, sfugge. S’invola, e alzandosi viene fuori come una scia, un filamento lungo pende dal pube, lungo e sempre più spesso, come un pene, un cordone o un clitoride infinito. Con il mio, lunghissimo e secco, mi sforzo di toccarlo, afferrarlo. Lo sfioro, per un attimo – fa scosse per aria prima di scomparire e mi abbandona. Solo, denso nel buio senza limiti, siedo faccia alla finestra. Tremolo, mi spruzzo in faccia e sul mento. La stanza mi si stringe addosso, mi sputa fuori. Mi sporgo dal davanzale, fuori è più chiaro. Cado in avanti, lento, senza volerlo. Cado, non si vede fondo; non finisce.
Apro gli occhi e sto qua dentro, in questa stanza, legato mani e piedi. Grido – stare sveglio è una festa –, la voce infine esplode dalla gola. Sbatto, faccia a terra; il Nano viene, mi asciuga. Sbatto per terra e non conta, il sangue stesso, in faccia, è una festa.
(pp. 60-62)
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