Luca Mignola si è intromesso di nuovo. Dice:
Una leggenda inizia così…
Il poeta è Tiresia. Tiresia vide due serpenti e colpì – per caso o per conoscenza – il serpente femmina. E divenne femmina per sette anni. Desiderò i corpi degli uomini, come prima aveva desiderato le mammelle delle donne, parlò la loro lingua, pensò i loro pensieri, soffrì i loro dolori mestruali. Mai partorì – mostro sterile. Tiresia tornò ancora uomo quando uccise anche il serpente maschio, come predisse l’oracolo. (C’è sempre qualcuno che è più poeta di un altro.)
Poi venne il giorno in cui Tiresia fu interrogato da Zeus e Era perché sciogliesse il nodo tra maschio e femmina. Il poeta scelse il maschio, in quanto maschio. Il poeta è il suo corpo, prima ancora che la sua voce – e se qualcuno volesse indicare una colpa, la veda qui e non altrove. E Era lo punì accecandolo e Zeus lo premiò donandogli la preveggenza.
Era forse preferibile la morte, si disse il poeta, che questa vita di conoscenza.
La leggenda continua per finire?
Niente era più come prima. L’ovvio subentrò al sublime. La massa divenne legge, chiese che le si credesse. Il poeta fu dimenticato, sebbene il poeta tirasse calci e maledicesse proprio quella massa informe che aveva cantato, mentre s’arrampicava sulle barricate di Parigi a dire “guardami, patria, io sono ciò di cui hai bisogno”.
Tiresia avrebbe subito altre metamorfosi, sette vite in sette epoche diverse com’era stato predetto. E questa è forse l’ultima:
Mano da penna e mano da aratro, l’una vale l’altra. – Che secolo di mani! – La mia mano, quella non l’avrò mai. E poi, l’asservimento porta troppo lontano. Quanto m’affligge l’onestà del mendicume. I delinquenti sono ripugnanti come i castrati: sono intatto, io, e che me ne importa. […] Non c’è famiglia d’Europa che io non conosca. – Famiglie come la mia, intendo, che devono tutto alla dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. – Li ho conosciuti tutti, i figli di famiglia! […] Che mai sarò stato nel secolo scorso: soltanto nell’oggi mi ritrovo. Non più vagabondi, non più guerre erranti. La razza inferiore ha sommerso tutto – il popolo, come si suol dire, la ragione; la nazione e la scienza. […] È la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito. Sicurissimo, è oracolo quello che dico. Comprendo, e non sapendo spiegarmi senza parole pagane, vorrei tacere.
E così, la leggenda di Tiresia finisce? Niente finisce se non con la morte. Il corpo finisce, non la parola o la voce, finché qualcuno ascolta.
*
Il poeta-indovino si sdoppia: Tiresia e Rimbaud. Tiresia e Nessuno. Ascoltate.
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Il poeta è nessuno
Dovrei essere figlio di Alessandro il Grande, partorito il giorno prima della conquista delle Indie. Il pensiero di Alessandro disperso per l’Asia come un epigono di Achille, come l’inevitabile, mi affossa.
[…]
Prendiamo ad esempio il Caso. Come si nomina ciò che sfugge? […] Nominare è allo stesso tempo tara e spada. […] La voce è l’unica cosa che conta.
[…]
È uno sfondamento inaudito […] Torna l’immagine della scrittura – come una membrana, circoscrive ora l’intera traiettoria: l’abbandono e il ritorno. La scrittura come vivisezione performativa del pensiero: come siluramento del pensiero, della sua tara, dell’idolo, di Tiresia e Rimbaud. Schiudendosi, il segno mostra il suo limite; mostrandolo produce uno scarto, una deviazione o differenza. Questo scarto è un luogo politico – il buco in cui si modella l’informe. È il luogo che devo abitare – è il luogo che sto abitando ora.
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