Da Menard a Belano: storia di un’ovvietà

Borges, Cortázar e Bolaño sono legati tra loro da lacci che vanno oltre le classificazioni geografiche e le categorie editoriali.
Dice ad esempio Bolaño:

“Dire che ho un debito perpetuo con Borges e Cortázar è un’ovvietà” (C. Manzoni, Roberto Bolaño, la escritura como tauromaquia, Ediciones corregidor, 2002).

Questi lacci riguardano una questione narratologica fondamentale: la relazione – la tensione – tra la forma breve e quella estesa, tra racconto e romanzo. Se è chiaro, da un lato, che non si possa intrappolare un processo in una definizione, è anche vero che l’unico modo per forzare il senso ad apparire – per fare luce sull’ovvietà a cui Bolaño si riferisce – è costruire il contenitore adatto. In questo caso, si tratta di una specie di quadro genealogico.
Vige infatti in Borges una separazione fondamentale tra le forze della finzione e quelle della realtà – nell’articolo Lo scrittore microscopico si diceva che proprio da questa distinzione netta viene fuori la tensione che è alla base del “metodo borgesiano”. C’è di più: la natura di questa separazione genera un’ulteriore opposizione. Quando Borges dice, riferendosi a Joyce e agli scrittori che utilizzano la tecnica del flusso di coscienza, “è uno scrittore realista, non dà ordine al mondo”, opera una nuova distinzione: dal dualismo finzione/realtà viene fuori un’altra opposizione – quella tra ordine e disordine. La finzione, in Borges, è il dominio delle forze speculative, quelle che “danno ordine al mondo” – le idee, il pensiero, la letteratura e l’arte in generale. Gli “scrittori realisti”, invece, non farebbero altro che riprodurre mimeticamente il caos della natura.

In Cortázar invece realtà e finzione si presentano fin da subito mescolate, fuse. Il superamento di quest’opposizione è così importante da rappresentare un’emancipazione politica e filosofica rispetto all’esempio borgesiano. Scrive Cortázar (Carta carbone, Edizioni SUR, 2013):

“Credo che la realtà quotidiana in cui viviamo non sia che il margine di una favolosa realtà che è possibile riconquistare, e che il romanzo – come la poesia, l’amore e l’azione – debba proporsi di penetrare tale realtà. […] Come scrivere un romanzo quando prima occorrerebbe dis-scriversi, dis-impararsi, partire à neuf, da zero, da una condizione preadamitica, per così dire?
[…] Il mio problema, a oggi, è un problema di scrittura, perché gli strumenti che ho usato per scrivere i miei racconti non mi servono per ciò che vorrei fare prima di morire. […]. Un racconto è una struttura, ma ora ho bisogno di destrutturarmi per tentare di raggiungere, non so come, un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, un serpente che si morde la coda; e io voglio farla finita con i sistemi e i meccanismi di precisione per riuscire a addentrarmi nel laboratorio centrale e lavorare, se ne ho la forza, sulla radice che prescinde da ogni ordine e sistema.”

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Quando scrive questa lettera a Jean Barnabé, nel 1959, lavora al romanzo Il gioco del mondo. Osserviamo come quella distinzione fondamentale – che in Borges prendeva la forma del dualismo finzione/realtà e ordine/disordine – slitta, si trasferisce e dà luogo a un’altra opposizione: racconto/romanzo e forma chiusa/forma aperta. Per Cortázar il racconto è un sistema chiuso e circolare – l’ordine; il romanzo, al contrario, abbraccia quella “radice che prescinde da ogni ordine e sistema”, è la forma aperta, sfondata per eccellenza.
Le conseguenze narratologiche di questo slittamento sono enormi. Se in Borges l’opposizione racconto/romanzo è in qualche modo implicita – Borges non scrive romanzi ma unicamente forme brevi: racconti, saggi e poesie – in Cortázar una distinzione così essenziale si ripercuote sulla materia stessa di cui racconto e romanzo, rispettivamente, si compongono. A partire da questa separazione, si dà luogo all’affermazione che un racconto non solo non dice le cose alla stessa maniera di un romanzo, ma dice cose diverse. Così, la tendenza già osservata in autori tanto di romanzi come di racconti quali Hemingway o Joyce – quella cioè di maneggiare poetiche differenti a seconda che si scriva un racconto o un romanzo –, trova in Cortázar la sua espressione estrema.
Siamo al punto in cui un’opposizione filosofica (finzione/realtà) slitta e si trasferisce in un dualismo narratologico (racconto/romanzo e forma chiusa/forma aperta). Poi arriva Bolaño e mischia di nuovo le carte.

Uno degli elementi più caratteristici dello scrittore cileno è la circolazione, all’interno della sua opera,  di temi, di personaggi, se non proprio di intere e conchiuse narrazioni – che si trasferiscono da un libro all’altro con la necessità dei fluidi.
Tra le varie occorrenze di questa circolazione c’è ad esempio Lalo Cura, la cui vicenda è, prima, oggetto di un racconto – Prefigurazione di Lalo Cura, in Puttane assassine – e poi confluisce nel romanzo 2666; c’è Auxilio Lacouture, presente sia nel romanzo breve Amuleto sia nel romanzo-fiume I detective selvaggi. C’è Carlos Ramirez Hoffman, che compare in La letteratura nazista in America, raccolta di biografie di scrittori fittizi, e si trasferisce nel romanzo breve Stella Distante, dove prende il nome di Carlos Wieder.
Poi c’è Arturo Belano, anagramma quasi perfetto dell’autore e suo alter-ego: la sua figura ricorre in svariati racconti e romanzi brevi. Ognuna di queste ricorrenze è legata alla vicenda de I detective selvaggi, di cui Arturo, insieme a Ulises Lima, è il motore.

L’opera di Bolaño appare così come un unico calderone, in cui le categorie che in Cortázar erano in opposizione – racconto/romanzo – sono fuse e rimodellate insieme. Per questo motivo, l’affermazione per cui un racconto non solo non dice le cose alla stessa maniera di un romanzo, ma dice cose diverse, qui dentro non vale: in Bolaño racconti e romanzi narrano spesso la stessa cosa. Inoltre, data la centralità, in questa circolazione, di forme intermedie o ibride (i romanzi brevi e la raccolta di biografie fittizie La letteratura nazista in America), anche la coppia di opposti forma chiusa/forma aperta perde ogni valore.

Rimane il nodo finzione/realtà nel calderone-Bolaño. Si diceva che Carlos Ramirez Hoffmann circola da La letteratura nazista in America a Stella distante. In questo passaggio, il suo nome muta in Carlos Wieder. Ci sono poi altri dettagli leggermente diversi tra le due versioni – nomi, aneddoti, fili di trama. È lo stesso Bolaño, nell’introduzione a Stella distante, a chiarire le differenze: fu Arturo Belano a raccontare all’autore la storia di Carlos Ramirez Hoffman – ma rimase insoddisfatto del risultato in La letteratura nazista in America. Così, i due si chiusero nell’appartamento dell’autore in Spagna, e guidati dai sogni e gli incubi di Arturo, scrissero Stella distante. Bolaño, a quanto pare, si limitò a consultare qualche libro, a preparare da bere e da mangiare, e a discutere il riuso e la riscrittura di alcuni paragrafi con Arturo Belano e “col fantasma sempre più pieno di sé di Pierre Menard” (Distant Star, New Directions, 2004).

Per descrivere la circolazione che caratterizza la sua opera-calderone, Bolaño utilizza quindi tre elementi: se stesso, Pierre Menard (il personaggio di Borges che riscrive, alla lettera, il Don Chisciotte di Cervantes) e Arturo Belano (il suo alter-ego). Il nodo ora pare sciogliersi: non solo dunque realtà e finzione sono fuse insieme, come in Cortázar; di più, ciò che tiene uniti gli opposti e rende possibile la circolazione è un processo di finzione autobiografica ­– elemento già presente in Borges come dettaglio o accessorio, che in Bolaño compare in forma ibrida e assume un ruolo di sintesi decisivo.

Così, ciò che in Borges era una distinzione netta, assiomatica ed esclusiva (finzione/realtà e ordine/disordine), diviene un’opposizione narratologica (racconto/romanzo e forma chiusa/forma aperta) e infine dà luogo a una forza fluida e caotica, auto-referenziale e unificante. Il nome di questa forza – come il debito perpetuo di Bolaño nei confronti di Borges e Cortázar, come la differenza tra riscrivere e copiare nel racconto di Borges Pierre Menard autore del Chisciotte – è un’ovvietà: è Arturo Belano, anagramma quasi perfetto e alter-ego dell’autore, passe-partout e detective selvaggio.

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L’articolo è uscito anni fa su Cattedrale.

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