Ho ritrovato un appunto anonimo in una libreria di seconda mano filo-falangista a Vienna. Fate voi.
“La narratologia ci ha abituati a scindere due tempi nell’analisi di un’opera: il tempo della storia (sequenze narrative) e il tempo del racconto (intreccio): ebbene c’è un altro tempo, uno più performativo, dai contorni più labili: è il tempo della composizione. È osceno pensare che questo tempo debba interferire con gli altri due, è una mescolanza di elementi interni ed esterni al testo che andrebbe nascosta, sotterrata, per buon gusto. Così, di fatto, nel tempo, si è scelto di fare, anche quando si è optato di mostrare gli ingranaggi segreti della narrazione: giustificare il tempo performativo della composizione a priori o a posteriori, tuttavia sempre fuori dal testo, come appunto un’oscenità. Ma non c’è niente di più interno al testo di questo tempo, e il suo legame con la posizione della voce narrante è quanto di più essenziale e veritiero si dia nell’artificio della finzione. Si tratta dell’opera stessa in quanto divenire […] ed è forse in questo punto che si precisa l’intuizione di Piglia in Formas breves quando scrive che il venire fuori della vera voce del narratore è la condizione della chiusa di un testo.
L’interferenza di questo tempo con gli altri due è invece uno degli elementi strutturali di opere come Twin Peaks The Return o I canti del caos. Però voglio darvi due esempi più classici, se permettete, di questa interferenza: le distrazioni omeriche e le oscillazioni kafkiane (rileggete, chi può, chi sono gli aiutanti di K. che lo attendono al villaggio nei pressi del Castello, o che lo raggiungono lì, o che K. non ha mai visto, o che hanno fatto le elementari con Frieda, o tutte queste cose insieme). Fate voi il resto”.
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