Qualcosa mi sfugge (prologo)
«E cosa ha fatto lei durante la Grande Guerra?»
«Ho scritto l’Ulisse».
Riporto a memoria l’aneddoto per dire che ognuno, come può, fa quello che può – pandemia o meno. In queste settimane sono tornato tra le pagine di uno scrittore la cui opera, negli ultimi anni, è diventata la mia casa. Ritorno ora anche, contestualmente, sulla lettera di un mio articolo uscito due anni fa per la rivista Cattedrale: si tratta di un breve saggio intorno alle funzioni del sogno e del documento in Enciclopedia dei morti di Kiš, un saggio il cui movimento finale, tuttora, non riesco ad afferrare (l’ho scritto io, certo, ma chi è io?). Questa ostinata devianza dell’oggetto letterario mi turba.
Scrive Kiš in “La lezione di anatomia”: “il tempo della pura immaginazione è passato”; è la sua personale risposta a una domanda precisa, una domanda che interroga l’insieme dei procedimenti della letteratura moderna.
“«L’erudizione è la forma moderna del fantastico», si è detto, mi sembra, a proposito di Borges. Questa sintetica enunciazione contiene una poetica completa della letteratura moderna e, forse, rappresenta il fondamento dell’intera letteratura moderna. Che cosa si vuole dire con questa formula? Che il tempo della pura immaginazione è passato. […] Ciò significa [nel caso di Una tomba per Boris Davidovič] che invece di inventare arbitrariamente ci si deve attenere ai documenti e ai fatti storici, prima di tutto a livello della fabula («La fabula non è in realtà che il materiale necessario per la formazione del soggetto» – Šklovskij)”. (“La lezione di anatomia”, Homo poeticus, 2009, p. 351)
A questa riflessione fa eco un passo da “Il crogiolo” di Luca Mignola:
“«Ti resta almeno un briciolo di tecnica?», proviamo a tirargli fuori la storia.
«Soltanto il dubbio».
«Che è la chiave che apre tutte le storie».
«Ammesso che esistano ancora le storie».”
(Racconti di Juarez del Sud, 2019, p. 75)
Il dubbio, il turbamento – le delizie del pensiero – mi hanno spinto a manipolare il breve saggio che segue, per tornare là sotto, nel nido di un movimento il cui effetto (il suo finale: la sua verità) mi sfugge.
Ci sono cambi sostanziali rispetto alla versione precedente, e modifiche invece microscopiche: delle ultime saprà godere soltanto “il lettore ammirevole” (Nabokov), un lettore che, in definitiva, non esiste più: anche lui, ormai, è letteratura.
***
Il sogno e l’archivio
Il genere aveva iniziato a deperire
La storia delle frizioni e degli adescamenti – erotici, agonistici e persino dialettici – tra documento e invenzione è forse la storia stessa della letteratura. Tra i numerosi cambi di paradigma che caratterizzano questa storia – che la rendono comprensibile e raccontabile attraverso il giudizio a posteriori, come solo è in grado di fare il discorso dimostrativo quando si spoglia di ogni orpello, si guarda allo specchio e dice a se stesso: «non amo i miei limiti, ma li riconosco» – ce n’è uno su cui posa lo sguardo Danilo Kiš: è la storia di Flaubert e della fine del romanzo realista.
È la storia della fine di un modello, della «forma della finzione caduta in disuso» (“Due variazioni su Flaubert” in Nuova Prosa 40, 2004, p. 22). Fino a Flaubert, dice Kiš, la letteratura rappresenta un insieme unitario, la totalità del mondo e dell’essere. Poi la caduta: “la letteratura ha perso la propria superiorità, la propria imparzialità, la propria integrità” (p.21). “Il mondo si era frantumato in mille pezzi” (p.21) e allora l’ossessione dello scrittore francese, l’angoscia dello stile è, per Kiš, un tentativo disperato di restituire la totalità proprio attraverso i cocci rotti, i frammenti.
Flaubert, scrive Kiš, identifica le cause alla base della crisi del genere realistico: narratore onnisciente e ritratto psicologico, “vale a dire la convenzioni letterarie più temibili e tenaci” (p.23), ma non riesce a superarle del tutto: si spinge, di fatto nell’esotico, proprio per liberare i propri personaggi dal determinismo psicologico in cui il lettore li avrebbe altrimenti incasellati, per comparazione con gli standard psicologici dell’epoca; c’è un accenno, dice Kiš, di trasformazione del narratore onnisciente in narratore inaffidabile. Se Flaubert fosse riuscito a superare quei due ostacoli, “la letteratura non avrebbe dovuto attendere un centinaio di anni prima che apparissero le Finzioni di Borges” (p.23).
E cosa sono le Finzioni di Borges? Diciamolo ora e togliamoci ogni sasso dalla scarpa: un’opera, forse la prima, in cui la natura delle frizioni tra documento e invenzione diventa il tema stesso della narrazione. Questo tema è la forma moderna della letteratura fantastica.
Questa non è la storia delle nostre emozioni
La tradizione delle biografie fittizie – di cui fanno parte, tra gli altri prima di Borges, i Retratos reales e imaginarios di Reyes e le Vite immaginarie di Schwob – discende a sua volta dalla prosa enciclopedistica e dai ritratti biografici. Questa tradizione, per mezzo dello stratagemma delle false attribuzioni, trasforma l’erudizione e l’archivio – la volontà di verità, esattezza e universalità dell’enciclopedia – in vettori speculativi che spingono la narrazione fuori dal genere realistico, nel calderone astratto della letteratura fantastica. Lo scrittore argentino si inscrive in questa tradizione con la Storia universale dell’infamia, e si premura di spingerla ben oltre i propri confini con Finzioni, per il tramite di un procedimento specifico: l’attribuzione erronea.
La forma più ricorrente dell’attribuzione erronea consiste in un riferimento – operato con tutto il rigore che il caso impone – a un documento che non esiste se non nel dominio della finzione. Questo documento, in Borges, è quasi sempre un libro. Così operano gran parte dei racconti di Finzioni: un libro fittizio entra nel dominio del reale e se ne impossessa (è il caso de A First Encyclopaedia of Tlön, in “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”); o ancoraè un inganno nell’inganno: la Storia della setta degli Hasidim è l’esca con cui il gangster Red Scharlach si vendica del detective Erik Lönnrot.
In Borges, la frizione tra documento e invenzione si manifesta dunque attraverso l’attribuzione erronea, ed è il tema stesso della narrazione. Così Borges supera i limiti del ritratto psicologico (il libro fittizio precede e sovrasta il soggetto che lo maneggia: “questa non è la storia delle mie emozioni: è invece la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius”, Ficciones, 2001, p.19) e stravolge la posizione del narratore: non si dà, in Borges, narratore che non sia inaffidabile; l’inattendibilità, l’ambiguità sono la sua ragione d’essere; questa inattendibilità non dipende da specifici tratti psicologici: essa deriva dal tema della narrazione: il documento, il libro fittizio, precede e sovrasta il soggetto che lo maneggia.
Il modo in cui Kiš si posiziona nel solco tracciato da Borges è il tema di questo articolo. Massimo Rizzante, nel saggio “Dell’ideale enciclopedico”, nota come “l’enciclopedismo di Kiš”, ovvero il suo ricorso al procedimento dell’attribuzione erronea e in generale alla tradizione borgesiana, sia “più un’arte della composizione che non un’arte della combinazione. In Kiš il gioco formale non diventa mai esercizio di stile sulle eventuali interpretazioni del mondo. […] Invece di un esercizio di stile su un tema le cui possibilità di interpretazione sono già inscritte in un codice – sia esso storico o retorico –, l’opera di Kiš è tutta una lunga e infinita variazione, una lunga e infinita esplorazione dell’uomo a partire dalle sue ossessioni, ossessioni nelle quali la frontiera tra storia personale e privata e storia pubblica e umana è cancellata per sempre” (Nuova Prosa 40, 2004, p. 124).
Al netto del tentativo, da parte di Rizzante, di neutralizzare la portata politica dell’arte della combinazione, facendo di essa un innocuo “esercizio di stile”[1], ci sono nelle sue riflessioni degli spunti importanti. C’è, in effetti, una differenza, una variante, una novità che Kiš introduce nel procedimento borgesiano. Nel dualismo che abbiamo indicato (documento e invenzione), la funzione del documento non è adempiuta, Kiš, in da un libro fittizio, ma dalla Storia stessa; una storia in cui, in effetti, i confini tra pubblico e privato sono scomparsi. Questa è la storia a cui Kiš continuamente allude:
“Io sono uno scrittore bastardo. Non vengo da nessun luogo.
Non sono uno scrittore ebreo come il maestro Singer. Gli ebrei, nei miei libri, non sono che letterarietà, straniamento, nel senso del Formalismo russo (ostranenie). Questo perché il mondo degli ebrei dell’Europa centrale è un mondo scomparso, un mondo di ieri, e come tale si trova nel campo di una realtà non-reale. Nel campo, quindi, della letteratura” (Kiš, “L’ultimo bastione del buon senso”, in Nuova Prosa 40, p. 27).
Una realtà non-reale: si entra in una dimensione che sembra quella del sogno. Prima di affrontare questa analogia come si deve, bisogna fare inventario degli elementi in gioco. Abbiamo un dualismo (documento e invenzione); un veicolo di passaggio tra i due poli (il libro fittizio: Borges); uno slittamento della funzione documentale al suo grado zero (il documento è la Storia stessa: Kiš). Ricordiamo che Ricardo Piglia, nel suo ciclo di conferenze televisive “Borges por Piglia”, chiama metodo borgesiano il procedimento per cui realtà e finzione (altro dualismo) vengono in contatto e finiscono per ribaltare le proprie posizioni per il tramite di un documento fittizio (i casi già citati in Finzioni di Borges, “La cavalletta non si alzerà più” in La svastica sul sole di P.K. Dick ne è altro esempio paradigmatico). I due modelli dualistici (documento/invenzione; realtà/finzione) sembrano speculari ma non lo sono: descrivono movimenti diversi, per quanto strettamente imparentati. Lo slittamento, in Kiš, della funzione documentale al suo grado zero, rende la Storia una “realtà non-reale”. Qui, per osservare quest’ultimo passaggio, introduciamo altre due variabili: il sogno e l’archivio.
Da questo sogno non ci si risveglia che nella morte
L’archivio, come nel racconto “Enciclopedia dei morti” (Kiš, Enciclopedia dei morti, 1988), è la Storia stessa: è tutta la storia che può essere rinvenuta, catalogata, inventariata, compresa e raccontata. Tuttavia il suo segno più intimo, la sua verità (la verità, in una finzione, esiste; in una finzione breve, è la vertigine che chiude il testo; vertigine presagita e annunciata fin dalle prime parole del testo stesso) non pertiene al mestiere e ai metodi dell’indagine storiografica: è la manifestazione di una correlazione inspiegabile, come in un sogno, eppure effettiva: così Dj. M., in “Enciclopedia dei morti”, dipinge motivi floreali a partire da un preciso momento della sua vita. Nelle ultime pagine che riguardano la sua biografia, nell’Enciclopedia, in quell’archivio precisissimo che è l’enciclopedia, si trova un disegno di Dj. M, la raffigurazione di un “fiore strano”, la cui forma sembra “la rappresentazione schematica del mondo dei morti” (p.68). La forma di questo fiore strano, secondo il dottor Petrović, interpellato per l’occasione dalla narratrice del racconto e figlia di Dj. M., è proprio quella del sarcoma che si era formato negli intestini di Dj. M. e che finì per ucciderlo: “la sua [di Dj. M.] ossessione di dipingere temi floreali coincideva con la progressione del male” (p.69).
Il segno più intimo, preciso e veritiero dell’archivio, la prefigurazione della malattia che ucciderà Dj. M., sembra venire da un sogno – di sicuro proviene da una realtà non-reale: questa realtà non-reale è il dominio della letteratura, scrive Kiš. Le due figure – archivio e sogno – comunicano poiché partecipano degli stessi elementi costitutivi. Non è un caso allora che la dimensione onirica rivesta un ruolo così importante nell’opera di Kiš, come d’altra parte in quella di Borges: non come l’elemento oppositivo del dualismo sogno-realtà (assunto desueto, tenace e temibile come le figure del narratore onnisciente e del ritratto psicologico nel romanzo realista); al contrario: come un esempio e un modello rappresentativo; e ancora di più come un deposito e un archivio.
Tuttavia, se rinneghiamo il dualismo sogno/realtà, dobbiamo riconfigurare anche i tratti del sogno. La letteratura, infatti, ha le proprie regole. Non si tratta allora di imitare la grammatica dei sogni, ma di attingere all’insieme di immagini ed eventi che l’attività onirica produce; di più: di assegnare a queste immagini il valore di documento. D’altra parte, come in Borges il libro precede e sovrasta chi lo maneggia, in Kiš il materiale archiviato conta di più di chi lo ha generato (prodotto o sognato):
“Era un sogno? Era il sogno di un sonnambulo, un sogno nel sogno, e perciò più reale di un semplice sogno, perché non verificabile in base alla coscienza, giacché da un sogno simile ci si sveglia di nuovo in un sogno? O era magari un sogno divino, il sogno dell’eternità e del tempo? Un sogno senza illusioni e senza dubbi, un sogno con una sua lingua e con i suoi sensi, un sogno non solo dell’anima ma anche del corpo, un sogno della coscienza e del corpo a un tempo, un sogno dai confini chiari e netti, con una sua lingua e una sua sonorità, un sogno che si può palpare, un sogno che si può verificare con il gusto, con l’olfatto e con l’udito; un sogno più forte della veglia, un sogno quale fanno forse solo i morti, un sogno che non si lascia smentire dal rasoio con cui ti tagli il mento, perché ti uscirà subito il sangue e tutto quello che fai non fa che confermare lo stato di veglia, nel sogno sanguina la pelle e sanguina il cuore, in esso si rallegra il corpo e si rallegra l’anima, in esso non ci sono altri miracoli all’infuori della vita; da quel sogno non ci si risveglia che nella morte” (“La leggenda dei dormienti” in Enciclopedia dei morti, pp. 76-77).
La variabile introdotta da Kiš nel nostro gioco aziona un movimento peculiare: la Storia slitta al suo grado zero, alla pura funzione documentale; l’archivio si fa più intimo e allo stesso tempo più oggettivo: il sogno non appartiene al sognatore, ma alla letteratura, eppure è fondamentale che qualcuno lo abbia sognato (prodotto e archiviato); notiamo come, qui, la differenza di grado tra la Storia e la dimensione onirica individuale si annulli del tutto: i due elementi svolgono la stessa funzione documentale. Il ruolo dell’invenzione muta radicalmente: non ci sono più storie da inventare, ma frammenti di una “realtà non-reale” da osservare nel loro insieme, per quanto “caoticamente imprevedibile” (“La lezione di anatomia”, Homo poeticus, 2009, p. 350) sia la loro combinazione – si noti, nell’ultimo passaggio, come la combinazione caoticamente imprevedibile preesista allo sguardo dello scrittore: a questi compete solo l’impeto – forse il coraggio, forse la fatalità dell’impeto – della visione d’insieme.
***
[1] “L’arte della combinazione” ha invece una natura eminentemente politica: sembra un gioco, in realtà ben altre cose sono in gioco. Scrive Ricardo Piglia: “qui entrano in gioco in modo diretto nella letteratura le relazioni sociali e alcune correnti della critica attuale vedono proprio nella parodia, nell’intertestualità, un trucco per separare la letteratura dai conflitti sociali: si tratterebbe di un mero gioco di testi che si autorappresentano, che si legano l’uno all’altro in modo speculare. Tuttavia, questa relazione tra i testi, che in apparenza è il culmine dell’autonomia della letteratura, è determinata in modo diretto e specifico dalle relazioni sociali. Nei suoi meccanismi segreti, la letteratura rappresenta le relazioni sociali, le quali a loro volta determinano l’insieme delle pratiche letterarie e le definiscono. Il fondamento per me è questo: la relazione con altri testi, con testi altrui, con la letteratura già scritta che funziona come condizione di produzione, si incrocia e si determina attraverso le relazioni di proprietà. In questo modo, lo scrittore affronta in modo diretto e specifico la contraddizione tra scrittura sociale e appropriazione privata, la quale si manifesta in modo eclatante nelle questioni suscitate da casi quali plagio, citazione, traduzione, parodia, pastiche, apocrifo. Come funzionano i modi di appropriazione in letteratura? Questa per me è la questione centrale” scrive Piglia in “Parodia y propriedad” (Crítica y ficción, 1986, pp. 42-43, i corsivi sono tutti miei; l’edizione italiana, Mimesis 2018, a cura dello stesso Rizzante, presenta problemi di traduzione e interpretazione così numerosi e significativi che citarla qui sarebbe un’infamia), e forse da questa prospettiva andrebbe pensata “l’arte della combinazione”: come un transfert totale della cosa politica in quella linguistico-letteraria. Su questo argomento, industria editoriale permettendo, spero di poter tornare in un libro.
L’ha ripubblicato su Il crogioloe ha commentato:
Il dubbio, il turbamento – le delizie del pensiero – mi hanno spinto a manipolare il breve saggio che segue, per tornare là sotto, nel nido di un movimento il cui effetto (il suo finale: la sua verità) mi sfugge.
Ci sono cambi sostanziali rispetto alla versione precedente, e modifiche invece microscopiche: delle ultime saprà godere soltanto “il lettore ammirevole” (Nabokov), un lettore che, in definitiva, non esiste più: anche lui, ormai, è letteratura.
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